Plovdiv (Bulgària) – 3 luglio
Can che abbaia, non morde
[saggezza popolare italiana]

(Ovvero di quando ti trovi il tuo cantate a mezzo metro e, per un inspiegabile crash emozionale e sinaptico, decidi di non cagarlo di pezza)



Diciamoci la verità: la Bulgaria non era certo tra le mie mete da visitare prima dei 45 (perché invece Aarhus e Zottegem erano in cima alla classifica…), non ho mai sentito l’esigenza di ringraziare personalmente il popolo bulgaro per averci fatto il dono del PIPPERO, non ho mai desiderato unire le dita, ruotare le falangi e contorcermi nel ballo suddetto con degli autoctoni.
Eppure, il 16 dicembre scorso, in un post gig ad alto tasso di malinconia, improvvisamente la terra bulgara mi è parsa l’emanazione diretta del paradiso, una sorta di nirvana pagano. Tanto che, in men che non si dica, ero la felice e inebetita posseditrice di un biglietto per Plovdiv. Qualcuno aveva pensato a una comoda e raggiungibile Sofia? Stolti! Perché privare i tuoi fan di un’esperienza irripetibile sugli autobus bulgari! Giammai, io che sono un cantante generoso e magnanimo, offro loro la più variegata ed emozionante esperienza che possa scovare!

Per qualche insondabile motivo, nella mia testa era radicata l’idea che la terra bulgara fosse piuttosto fredda, quindi, tutto sommato, un piacevole refrigerio dopo il caldo tropicale patito nelle lande fiorentine.
E invece no…
Scopro con raccapriccio che, in questa terra dimenticata da Dio e dagli uomini, nevica 5 mesi l’anno ma, per i restanti 7 c’è una temperatura desertica, con picchi di 43 gradi che trasformano l’asfalto in sabbie mobili metropolitane. Aggiungiamo a questa simpatica condizione meteo, l’ormai noto effetto Placebo e scopriamo con gioia che in 48 ore sono previsti sbalzi termici di circa 20 gradi, afa, tempesta, grandine, fulmini e saette. Possibilità di fare un bagaglio a mano leggero: seppellite!

Per minimizzare tuttavia il peso della valigia decido, chiaramente in maniera sciagurata, di abbandonare il mio fedele Mac in favore di un più maneggevole e leggero mini vecchio computer Windows. Con il senno di poi, mi sovvengono tutti i motivi che da sempre mi legano indissolubilmente alla sacra mela: un’ora prima di partire per l’aeroporto, lo sciagurato computerino decide di avviare un aggiornamento di tutti i sistemi e tutti i programmi in esso contenuti in maniera del tutto autonoma e senza possibilità né di spegnere l’apparecchio né di staccare la corrente, pena la brasatura perenne dell’HD. Quando vedo che dopo 25 minuti si sono installati ben 15 aggiornamenti su 189, decido di sfidare la sorte e parto con il solo ausilio nel mio smartphone, pregando molto intensamente che non succeda nulla di irreparabile. Ora, io non salvo vite umane, ma a volte i problemi che si generano nel lungo processo che porta alla nascita di un libro qualunque, possono costare la vita a più di un soggetto.

Mentre entro nel parcheggio di Orio, succede un evento mai accaduto prima: alla radio trasmettono CENICERO. Mentre qualunque fan dei Placebo sano di mente vedrebbe questo come un infausto segno del destino e tornerebbe a casa gambe in spalla, la sottoscritta, che come si sa inspiegabilmente ama alla follia questa canzone, alza il volume e trova parcheggio in tempo zero.
Il volo fino a Sofia trascorre in maniera abbastanza tranquilla fatta eccezione naturalmente per il bambino urlante davanti a me che si tacita soltanto due minuti prima dell’atterraggio nonostante io abbia cercato di tramortirlo più volte facendo uso delle maledizioni non verbali, di harrypotteriana memoria.
Dopo un’ora e venti minuti di attesa riesco a oltrepassare la barricata umana che si è creata al controllo passaporti, rimediando molto probabilmente una broncopolmonite passando dal phon bollente al alla cella frigorifera almeno nove volte.
Grazie alle indicazioni precedentemente fornitami dagli amici che già si trovano in terra bulgara, riesco a individuare abbastanza agevolmente un taxi non abusivo. Dopo nemmeno 30 secondi realizzo che forse era meglio un taxi abusivo. A dire il vero qualsiasi altro mezzo di trasporto sarebbe stato preferibile: in poco meno di 3 km rischio la vita seriamente due volte. È chiaro che questo tizio (che peraltro si crede la controfigura affascinante di Lorenzo Lamas in Renegade) ha preso la patente grazie a un corso acquistato on-line sul Groupon bulgaro. Al secondo tentativo di farci finire fuoristrada mi aggrappo con veemenza ai suoi capelli e, oltre al tentativo di fargli lo scalpo, gli azzero completamente l’udito con un urlo degno di Cita.

Grazie a un intervento sicuramente divino, riesco ad arrivare in albergo dove mi stanno aspettando gli amici per andare a mangiare. Certo, fino a qualche tempo fa era normale incontrarsi per bere un caffè in centro… ora ci diamo appuntamento direttamente in Bulgaria per pranzare insieme.
La temperatura è a prova di Tuareg, i capelli sono appiccicati e si gode appieno di quella catartica sensazione di respirare aria uscita da un ibrido tra un phon e una marmitta catalitica. Tuttavia la condizione meteo avversa non mi fa desistere dal commettere il primo atto vandalico nella mia vita. Dovete sapere che di tutti i concerti che ho visto in questi ultimi anni, non ho mai trovato un cartellone in nessuna delle città in cui sono stata. Qui, improvvisamente mi trovo davanti a una parete completamente ricoperta di affiche sul concerto che si terrà a Plovdiv. L’effetto sindrome di Stendhal è immediato e lasciare lì tutto quel ben di Dio sembra veramente un delitto. E, in fondo ne stacchiamo soltanto uno, ripromettendoci però di ritornare in piena sindrome post gig.



Dopo un pranzo gradevole ma che ci fa chiaramente capire che i bulgari hanno un concetto di servizio in sala molto particolare dal momento che non si riesce a mangiare una sola pietanza contemporaneamente, comincia il viaggio verso la vita finale. Due comode ore di autobus e raggiungeremo finalmente l’amena  Plovdiv. Certo, prima bisogna arrivare alla stazione degli autobus e per farlo l’unico mezzo a nostra disposizione è chiaramente il taxi. Ed è in quel momento che accade l’incredibile: subiamo il nostro primo gran rifiuto. Senza alcuna spiegazione il tassista ci respinge con un secco NO. Così… con la simpatia tipica di un bulgaro sovrappeso, sudato e dai capelli unti e color Trump.
L’unica spiegazione plausibile è che la stazione degli autobus sia troppo vicina; il che è assolutamente vero, ma fare quel chilometro e mezzo con le valigie e una temperatura degna del suolo di Venere sarebbe stato come andare incontro a morte certa.
Per fortuna il secondo tentativo va a buon fine!
Ora, dovete sapere che una cosa che ho imparato sulla Bulgaria è che qui non c’è assolutamente nessuno che parla una lingua che sia diversa dalla loro: no inglese, no francese, no tedesco, no italiano. Nulla. E anche i cartelli chiaramente sono scritti esclusivamente in cirillico. Per fortuna, grazie a un po’ di intuito e alle reminiscenze di greco antico, riusciamo a individuare la biglietteria giusta per arrivare a Plovdiv e con i nostri modernissimi biglietti (preoccupantemente simili a degli scontrini di McDonald’s del 1984) finalmente saliamo sul nostro bus.

Due ore dopo siamo arrivati, incredibilmente sani salvi. Ora non resta altro da fare che raggiungere l’albergo, procacciarci la cena e sprofondare in un sano riposo ristoratore. Non prima naturalmente di aver incassato il secondo gran rifiuto. Questo tassista però, per lo meno, ci rimbalza accampando una scusa parecchio creativa: non ha posto per i nostri bagagli poiché il baule è occupato da una RUOTA
Giunti infine all’albergo che abbiamo prenotato, scopriamo che è molto carino ma, come sempre, non è tutto oro quello che luccica. L’hotel, infatti, si sviluppa nei sotterranei e così io mi trovo in una splendida camera molto grande, dotata di caminetto, divano, poltrone, scrivania, enorme e confortevole bagno, ma posizionata al livello -2.



Non ci sono finestre, l’arredamento ricorda troppo da vicino la cripta di Dracula e io, francamente, mi chiedo se mai riuscirò a chiudere occhio considerato anche il fatto che sono completamente isolata, abbandonata sia dal Wi-Fi sia dal telefono. Se il conte Vlad decide di aggredirmi, non ho speranze. L’unica idea che mi viene, ammetto, non particolarmente geniale, è di posizionare la valigia vuota in prossimità della porta. Con questo stato di profonda ansia, palese claustrofobia, mancanza di luce e di aria e una temperatura che oscilla tra i 16 gradi accendendo il condizionatore e i 34 spegnendolo, passo l’ennesima notte pre concerto completamente in bianco.
La mattina successiva abbandono il lenzuolo che pare una sindone con l’umore che mi è proprio: fresca, allegra e riposata.
Poi mi ricordo che è prevista pioggia. Non potendo aprire finestre perché di finestre non ce ne sono (e vi assicuro che svegliarsi due piani sotto terra e come svegliarsi in una tomba), provo a vedere se c’è un minimo di segnale per aprire un’applicazione. Forse avrei fatto meglio non saperlo: c’è un fulmine grosso con una casa che attraversa tutto lo schermo dello smartphone. Ma siccome non voglio perdere la speranza, mi affretto al livello zero per controllare di persona. Ok, è vero, sta diluviando. Ancora una volta, mi presenterò nella mia forma più affascinante: un poncho rosso a pois.
Sfidando le intemperie decidiamo di andare a fare un giro nei pressi del teatro per vedere com'è la situazione. Ci sono pochissime persone in coda, ci fermiamo a scambiare due chiacchiere ma del resto ci sono talmente tanti settori e talmente tante entrate che è perfettamente inutile mettersi in fila. E naturalmente, continua a diluviare!

Il teatro è completamente blindato, manco stessero facendo i nuovi esperimenti del CERN ma riusciamo comunque a intravedere delle scale pericolosamente ripide.
Davvero molto molto ripide.
Ricordo al popolo che io soffro di acrofobia e di vertigini: per diversi minuti prendo seriamente in considerazione l’idea di mollare tutto e lasciar perdere questo concerto che è chiaramente nato sotto la stella sbagliata.
Alla fine decidiamo di prenderla con molta calma, andiamo a visitare il paese, a consumare dell’altro cibo bulgaro e ci avviciniamo alle porte un’ora prima dell’apertura.
Ed è chiaramente in questo momento che si scatena l’inferno: se prima diluviava soltanto, adesso sembra che stiamo aspettando Noè che ci venga a prendere. Secchiate d’acqua gelida che farebbero increspare anche i capelli di Yuko Yamashita, torrenti in piena che scorrono tutto intorno tanto che mi aspetto da momento all’altro di vedere qualche salmone risalire la corrente e, particolare non trascurabile, il pensiero di dover scendere degli scalini in pietra resi più scivolosi di un’anguilla imburrata che mi paralizza.
Nel frattempo un tizio di una biglietteria bulgara allestisce alle nostre spalle un banchetto di fortuna per vendere gli ultimi biglietti del concerto e riesce anche piazzarne due, nonostante gli piova incessantemente sulla tastiera.


Quando finalmente si aprono le porte, lo scenario che mi si para davanti è ancora peggio di quello che mi aspettavo. Non ci sono corrimani, i gradini non sono gradini ma pezzi di pietra che non hanno mai visto un restauro, la mancanza totale di balaustre mi fa capire che livelli di sicurezza sono rimasti fermi al 117 d.C., anno in cui venne eretto il teatro. Dentro di me cominciano a partire delle sequele di improperi tali che, sono certa, meriterebbero i complimenti di Satana in persona. Mentre scendo questa improbabile scalinata, strisciando a carponi con la stessa grazia di un bradipo ubriaco, inveisco contro tutte le divinità, contro il cielo che continua a vomitare acqua, contro i lombrichi che sicuramente stanno facendo un party negli interstizi di questo benedetto teatro e, lo ammetto, anche contro la mia band. Perché insomma, alla fine questo non mi sembra un buon modo per premiare la fedeltà di un fan; non mi aspetto di certo dei ponti d’oro che mi conducano alla mia seduta, ma nemmeno una sassaiola viscida verso l’inferno. Se non è questo un tentativo palese di sterminio fan, non so francamente cosa possa esserlo… 
Atterriamo in una comoda quarta fila con lo stessa stanchezza di un maratoneta al chilometro 98, guardando con terrore e raccapriccio questi temerari che stanno in prima fila con il vuoto cosmico davanti a loro, senza nessun tipo di protezione e che con l’agilità di stambecchi, percorrono le impervie scalinate con sicumera e reggendo diversi cocktail.


Il palco è già allestito e chiaramente non per i nostri, se non altro perché il microfono è troppo alto.
Nel frattempo, continua a piovere e sul palco si è creata una sorta di micro piscina in cui il nostro cantante potrebbe sguazzare allegramente. Luci e amplificatori sono adeguatamente impacchettati dei sacchi neri del rusco.
Improvvisamente cominciano a smontare il palco: di tutte le band di apertura dei Placebo,  se si escludono i Mirror Trap che naturalmente rimangono sempre i miei preferiti, questi sconosciuti si guadagnano sicuramente un posto sul podio. Veloce, facile e indolore: sembra quasi non averli sentiti.
Lo confesso: ho un po’ il morale sotto i piedi: piove da ore, sono zuppa come se fossi appena uscita dalla doccia, infreddolita e con i capelli che potrebbero ospitare tranquillamente una famigliola di rondini tanto sono aggrovigliati. Ho paura ad alzarmi, ho paura di ruzzolare di sotto, ho paura che mi spingano. Insomma non sono proprio nella condizione migliore per affrontare un concerto.
Ma poi, as usual, avviene quello che non ti aspetti. Certo, perché la nube di Molkozzi si riversa solo sui fan disagiati, di sicuro non sul suo legittimo proprietario. Ed è così che smette di piovere, compare uno splendido arcobaleno, la temperatura si alza (non solo quella interna) e straordinariamente anche il palco si asciuga.
Nel frattempo, il popolo bulgaro continua ad arrivare andando a occupare i posti più improbabili. Individuo anche due tizie visibilmente incinte che scendono i gradini come non facessero altro tutto il giorno. È evidente che sono delle folli, temporaneamente rilasciate…
Tutto sommato il pubblico di Plovdiv mi sembra molto ordinato, propenso alla chiacchiera e al bere. Gli unici picchi di follia al momento si registrano proprio nella prima fila dove c’è una tizia che, sfidando la sorte, il vuoto e la morte, balla come una tarantolata in piena crisi mistica. E il concerto non è nemmeno ancora incominciato. C’è stato soltanto il promo.
Appena attaccano le note di Pure Morning tutto il teatro, in sincrono come se avesse una molla sotto al sedere, si alza in piedi e comincia a cantare, a ballare, a gridare: BRAVI!
E meno male che siamo noi italiani quelli che di solito fanno casino: a Taormina abbiamo aspettato seduti e composti per ben due canzoni prima che Brian ci dicesse di alzarci.
Qui, nessuno aspetta niente.
In un attimo ci si dimentica di tutta l’acqua presa, del fatto che stai subendo l’effetto pannolone visto che sei stata seduta per un’ora buona su un cuscino completamente fradicio. Ti dimentichi della paura di cadere di sotto e cominci a goderti davvero il concerto da una prospettiva del tutto nuova. Così dall’alto io il palco non l’avevo mai visto: ci sono dei video, delle luci e, to’, ci sono delle altre persone oltre a Brian!



Benché la scaletta sia immutabile in secula seculorum, ci sono in questo sperduto posto bulgaro una carica e un trasporto che non lasciano indifferenti nemmeno i nostri. E sono talmente coinvolti, felici e soddisfatti della risposta del pubblico da perdere evidentemente il senso del tempo e, soprattutto, dello spazio: tant’è vero che su Loud Like Love, Brian incita con foga gli astanti con un sentito “CMON SOFIAAAAA”. I plovidiviani, autoctoni e non, restano un attimo interdetti ma poi esplodono letteralmente su una delle canzoni più amate dei nostri, Too Many Friends. Sono talmente tanto entusiasti che ho il sospetto che lo insegnino a scuola al posto dell’inno nazionale.

A guardarsi intorno lo spettacolo delle torce accese e meraviglioso e io sfoggio con orgoglio il mio braccialettino rosa luminoso con la scritta LOVE. Finisce Infra-red e, poco prima di lasciare il palco, Brian si esibisce in un balletto di soddisfazione che purtroppo cogliamo in pochi: se sia stato felice per l’audience o perché ormai mancano solo quattro canzoni, naturalmente non ci è dato saperlo…
Di solito, prima dell’encore, si richiamano gli artisti sul palco invocando a gran voce il nome della band.
E invece in Bulgaria no.
Il richiamo è un coro da curva sud dello stadio che recita più o meno così: UE UE UE! Naturalmente non possiamo fare altro che adeguarci e ormai siamo talmente prese dall’entusiasmo della folla che io traviso anche tutto quello che dice la mia compagna di sventura. Sono assolutamente certa che lei non abbia apostrofato il nostro cantante chiamandolo “grassa baldracca”, ma per insondabili motivi il mio cervello registra esattamente queste parole. Sarà che ultimamente con il trucco ci sta andando giù pesante sfoggiando il look maîtresse attempata…
Su Running spremiamo definitivamente le batterie del cellulare ondeggiando torce come se non ci fosse un domani e finché dell’ultima nota non resta che l’eco.



Ora abbiamo un problema: riuscire a guadagnare l’uscita senza concludere la serata al Pronto Soccorso bulgaro. Individuiamo le scale meno disastrate e ci troviamo in una stradina stretta e non esattamente ben frequentata.
Ma in un post gig, si sa, l’adrenalina da smaltire sempre altissima e quindi ci mettiamo a berciare a un angolo incuranti di tutto quello che succede intorno. Aspettare i nostri che escano è quasi una sorta di tradizione, ma qui le possibilità sono veramente molto molto scarse. Le uscite sono tantissime e poi qui, a parte noi cinque sgallettate italiane, non c’è veramente nessuno. Agli occhi di ignari passanti potremmo semplicemente sembrare una combriccola di casalinghe che si sta scambiando ricette sul gulash vegetariano o consigli su come smacchiare correttamente la camicetta di seta.

Ed è in questo clima tutto sommato rilassato e un po’ da cazzeggio che si consuma il dramma. Con calma e nonchalance una di noi annuncia: “Oh, to’ guarda: c’è Brian!” Quattro paia di occhi si girano nello stesso istante. Lo vediamo, lo fissiamo e facciamo esattamente quello che farebbe una normale fan disagiata, abituata a macinare chilometri, a fare trasferte,  ad affrontare avverse condizioni climatiche, terrificanti mezzi di trasporto e qualsiasi cazzo di ostacolo il destino decida di metterle davanti: NIENTE. Io trovo soltanto la forza di dire: “Indossa gli stessi pantaloni di Logrono!”  E nient’altro. Lui, probabilmente ancora sotto l’effetto benefico dei cori bulgari, si volta a guardarci e ci sorride. E anche lì, noi nulla: non un cenno, non un sorriso, non un saluto. La paralisi catatonica.
Addirittura, mentre Billy carica delle borse nel baule, lui ci fissa dall’interno dell’auto attraverso il portellone aperto con l’ennesimo sorriso accennato e un’espressione tra lo sconcerto e il perplesso. Sembra avere un enorme ? sulla testa come a dire: “Ma non ho trattato male nessuno. Non ho fuckeggiato, non ho cazziato… Ho anche sorriso! Perché diavolo nessuno mi dice niente?”
E noi, imperterrite, di nuovo il nulla: non un cenno, non un sorriso, non un saluto. Anzi siccome la figura di merda ormai stata consumata, decidiamo di tacito accordo di allontanarci con camminata sprezzante, pancia in dentro petto in fuori, senza minimamente voltarsi a sbirciare i vetri oscurati del van.
Ora, è la seconda volta che mi capita di avere il mio cantante a mezzo metro ed è la seconda volta che non riesco nemmeno a guardarlo in faccia. Dopo Malaga, ero convinta di aver passato il peggio e che ormai tutte le mie paure, nel caso fortuito di un secondo avvenimento miracolistico, si sarebbero sciolte come neve al sole. Ora so per certo che non è affatto così.
Mi piace pensare che sia stato un gesto di timidezza condivisa, perché in fondo noi siamo leoni da pubblico, lui è un leone da microfono ma poi, quando si tratta di fare il primo passo, un po’ ci si vergogna sempre. C’è anche da dire che non basta un sorriso a cancellare anni di terrorismo psicologico e che forse, se mister Molko non avesse passato gli ultimi anni a mettere una distanza di sicurezza tra sé e i fan di almeno 50 metri, avremmo reagito con più naturalezza.
La realtà purtroppo è che me la sto raccontando. Non voglio pensare al fatto che per la seconda volta ho avuto l’occasione di scambiarci due parole e mi sono lasciata sopraffare dal terrore. Non voglio pensare al fatto che una terza occasione non capiterà mai più. Insomma non voglio pensare al fatto che il mio cantante mi veda come una povera ebete. 
In ultima analisi, alla fine, io sono la stessa persona che gli ha mandato delle mele su Instagram per festeggiare il suo ritorno e che, al momento buono, non se l’è cagato di pezza. Che cosa mai potrà pensare di me quest’uomo, se non che sono una fruttivendola completamente sciroccata?
Dopo questo avvenimento tutto quello che succede nelle ore successive perde completamente di rilevanza. Sul volo di ritorno un bambino decide di usarmi come bersaglio del cibo che si è puntigliosamente tolto dalla bocca e la cosa non mi disturba nemmeno. Certo, alla prima occasione mi sposto e passo l’ora successiva a sospirare con la mia compagna di viaggio e darci reciprocamente delle idiote.
Con il senno di poi è chiaro che indietro non si torna, che quello che è successo è successo e che chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce 'o ppassato.
Non resta che affrontare questa cosa con maturità consapevole e guardare con rinnovato entusiasmo al futuro. Nel frattempo segnalo che ci sono delle ottime offerte sulle corde da impiccagione sia su Amazon sia su Zalando.



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