MILANO, 23 giugno 2018
Di quelli che si esibiscono,
perdonatemi, non ho granché memoria: ricordo un biondino con un paio di
pantaloni del pigiama che celavano a stento una minima emozione, ricordo un
gruppo che ha riscosso anche un discreto successo (mi pare che il batterista
suonasse con gli Oasis…). Nel frattempo noi proseguiamo nella nostra missione
di sopravvivenza in vero stile “children of the night”: litri di acqua fredda
per non avvizzire come delle prugne secche e pasticche di destrosio per non
crollare svenute come le protagoniste di un romanzo ottocentesco di infima
categoria ma prive di pizzi e crinoline.
Nota di look: premettiamo subito una cosa, il fatto che Milano stia nel nord Italia non vuol dire che la temperatura sia le stessa del nord Europa. Siamo al SUD dell’Europa, immersi in piena Pianura Padana e con un clima medio che rende felici solo zanzare e rane. Chi diavolo vi ha consigliato di salire su un palco esposto al sole da giorni vestiti come se steste andando alla comunione di vostra cugina? Volete per caso vedere diventare realtà il verso: “Someone call the ambulance”?
La forza non viene da un
vigore fisico ma da una volontà indomabile.
[Mahatma Gandhi]
(Ovvero di quando ti rendi
conto che anche Gandhi può dire delle cazzate universali ma poi ti affidi al
potere seduttivo e afrodisiaco delle parole. Anzi, della parola. E quella
parola è CIAO)
Quando uscì la data di Milano
ero a Londra a passeggiare lungo le rive del Tamigi e, lo ammetto, ho preso la
notizia con scarsissimo entusiasmo per diversi motivi:
-
un festival
= troppa gente, troppo alcol, troppa musica sconosciuta e, tipicamente, infame.
Troppa gente, soprattutto;
-
un festival in Italia = nel dizionario dei sinonimi questo il binomio
festiva/Italia corrisponde a “disorganizzazione a stampo malefico”;
-
3 concerti di fila = divorzio
Con istinto profetico proprio
qualche settimana prima che annunciassero la data, avevo paventato l’ipotesi
che i nostri si esibissero agli I-Days, classificando la cosa come “catastrofe”.
Perché è ovvio che se ti vengono a suonare a pochi chilometri da casa NON PUOI dire di no. Sarebbe come
incontrare Molko per strada e dirgli: scusa devo andare sono in ritar… Va be’,
soprassediamo.
Tendo tuttavia a sottolineare
che fino all’edizione del 2017 gli I-Days si svolgevano praticamente nel mio
cortile di casa. Tempo di raggiungimento della location: 8 minuti scarsi. Ora,
naturalmente, qualche genio dell’amministrazione pubblica ha deciso di
riqualificare la “splendida” zona dell’expo e farli esibire sotto quel palo
della luce agghindato come un albero di Natale sottocosto che ha il ridondante
nome di “Albero della Vita”.
Quindi devo preventivare
un’ora di auto (sì, vado piano. Problemi?) e una sveglia all’alba. Ora, io non
sono affatto una morning person, se posso rosicare minuti al sonno lo faccio in
tutti i modi. Sono certa di aver dormito diverse volte sotto la doccia, sicuramente
facendo le scale. Ci sono persone che possono testimoniare che riesco ad
addormentarmi anche mentre aspetto che scenda il caffè, in piedi di fianco alla
macchinetta. Ergo, devo trovare una soluzione per ridurre al minimo i
chilometri da fare. Dopo aver studiato tutte le strade, aver cercato di
noleggiare un teletrasporto o, in alternativa, un autista che mi lasci anche la
macchina, la situazione degenera fino al punto che decido di prenotare un
B&B vicino all’Expo. Siccome non sono l’unica sciroccata, scoviamo in tempo
zero un posticino delizioso, prontamente ribattezzato Bates Motel: del resto,
dormire fuori la notte prima del concerto è una tradizione e chi sono io per
spezzare questa folcloristica e dispendiosa abitudine? Già mi sento in colpa per aver comprato solo un biglietto, figuriamoci…
A meno di 48 ore dal concerto
abbiamo solide certezze e ferree verità: sui siti ufficiali le informazioni
sono utili quanto un ghiacciolo al polo nord, sulla pagina del festival si fa a
gara a chi la spara più grossa (PIT,
VIP, CIP&CIOP sono un tutt’uno), le voci di corridoio sono, al solito,
le più attendibili. Insomma: regna sovrana la vecchia regola del “tutto e il
contrario di tutto”…
Nel frattempo comincia a
serpeggiare anche l’orrida ipotesi che per raggiungere il palco sia necessario
correre per 2 km su un terreno dissestato riparandosi dagli spintoni, fare una
giravolta, farla un’altra volta, saltare ostacoli semoventi, confezionando una
camicetta e ripetendo la tavola periodica degli elementi, attraversare con il passo del giaguaro una trincea piena di sanguisughe
appositamente fatta a scavare da Molko, rimettersi in piedi con un agile balzo per
indossare un tutù color pesca (che con i tuoi colori sta un amore) e guadagnare
altri 350 m a suon di pliè, grand jeté e brisè improvvisare il passo del
gambero, sferruzzando - con amore naturalmente - una papalina da notte che
verrà offerta come dono al tuo cantante. Ora, al là del fatto che MAI indosserò un tutù color pesca, mi
rifiuto di credere che la disorganizzazione italiana possa raggiungere livelli
di demenza così elevati.
Dopo una notte pressoché
insonne (non so esattamente se per colpa dell’adrenalina, per l’insalata di
riso condita con l’aceto o per le temperature salgariane che metterebbero a
proprio agio Sandokan e Tremal-Naik),
decidiamo di andare in fila anziché rigirarci nel letto come delle cotolette.
Il rapporto dei fan presenti sul luogo è di 8 (Placebo) a 1 (Gallagher): questo
ci fa sentire orgogliosamente dementi.
In più, sperimentiamo per la prima volta l’ebbrezza di fare la fila in una
stazione della metropolitana. Praticamente, l’anticamera dell’inferno: non c’è
luce, non c’è aria, in compenso c’è un’umidità che favorisce la crescita di
muschi e licheni. Il tutto rallegrato dagli annunci dei treni in partenza/in
arrivo/soppressi/in ritardo al ritmo di uno ogni 15 secondi.
Considerate altresì che
intorno all’area non c’è nulla, zero, niet, nothing, il vuoto cosmico totale.
Tranne un bar. Che però ospita un convegno e quindi: vuoi caffè? Ti scappa
pipì? RANGES!
Finalmente, con non pochi
ostacoli e informazioni date secondo il vecchio principio dell’ad minchiam,
alle 15 ci intransennano. Sotto al sole. Per un’ora. Come ciliegina satanica ci
sono i fotografi che sembrano provare un piacere perverso nell’immortalare
esseri umani stipati, sudati e incazzati. Quando finalmente passo i controlli
(che, santo dio, devo dichiarare anche
il codice pantone delle mutande!) e giro l’angolo ho l’agghiacciante
conferma che le previsioni di cui sopra erano state assolutamente OTTIMISTICHE! Il palco è lontanissimo,
a dire il vero nemmeno si vede. Sono 2 km buoni da percorrere di corsa (o per
lo meno a passo spedito) SOTTO IL SOLE. Ma è un concerto o una gara di iron
fan?
È questo il momento tuttavia
un cui appare chiaro a tutti che la strategia dei fan di Gallagher è vincente:
sono giovani, freschi e riposati. E ci sorpassano a larghe falcate.
È palese che solo una mente
criminale in evidente stato confusionale poteva organizzare una cosa del
genere. C’erano tutte le premesse per mettere i controlli lungo il decumano,
evitando che la gente dovesse fare la maratona sotto al sole ma no, qualche
genio dal QI non superiore a quello del mio comodino ha deciso che era più
divertente disidratare le persone e farle arrivare al palco prossime alla
morte. Siccome però non sono cosi stronzi, lungo la strada ci lanciano delle
comode bustine di integratori da sciogliere nell’acqua che potremo comodamente
acquistare all’interno dell’area. Grazie, grazie a tutti. Anche a quelli che
hanno pensato che ci servissero dei frisbee, o dei cappellini, o dei
palloncini, o dei condom. Praticamente, arriviamo
al palco travestiti da vucumprà romagnoli!
E poi: ma esattamente è stato
Usain Bolt a suggerirvi di aprire le porte alle 16 e schedulare il primo
concerto alle 16.40? Ovvio che la poverina che doveva esibirsi è uscita sul
palco facendo una perfetta imitazione della particella di sodio dell’acqua Lete
perché chiaramente NESSUNO è ancora riuscito ad arrivare!
Durante la traversata perdo
la speranza e anche un polmone, mi aspetto di vedere l’inner pit già pieno! E
invece no… che fine hanno fatto tutti quelli che mi hanno superata? Sono morti?
Hanno sbagliato strada? Forse morirò anche io, penso mentre mi accascio. Giuro,
non credo di essere mai stata così vicino a un infarto: mi pulsano le tempie,
ho la tosse e un groppo in gola (credo si sia formato a causa dei moscerini
ingeriti durante la corsa), la vista annebbiata e prevedo dolori postumi a
parti del corpo che non so nemmeno di avere!
In un momento di generosità e
osservando i relitti umani che mi circondano, decido di andare a prendere
dell’acqua per tutti. Ed è questo il momento in cui si consuma il primo vero
dramma della giornata: faccio in tempo a uscire da prato e poi, non so se per
il caldo, per la stanchezza, per visioni mistiche estemporanee, inciampo nei
miei stessi piedi e casco come una pera cotta affetta da labirintite
sull’asfalto sotto gli occhi allibiti di 4 energumeni della security che cercano
in tutti i modi di convincermi ad andare a farmi medicare, pensando sicuramente
che nelle ore più calde della giornata gli anziani dovrebbero stare a casa. Io
spavalda rispondo che no, figuriamoci, sono solo scivolata, due escoriazioni
che cosa volete che siano. In realtà vorrei la mamma, mi viene da piangere, e
porca vacca, le sbucciature bruciano come l’inferno!
Finalmente arrivano le 20: è
il momento di sciogliere i capelli, ripassare il gloss, cospargersi con
salviette profumate. Insomma, tentare di riassumere un aspetto vagamente umano.
Nel frattempo preparano il
palco e c’è una sorpresa: una pedaliera
nuova nuova, spacchettata direttamente sul palco. Il sospetto c’è ed è
fondato: che siano scattati già i 3x2 all’UniEuro?
Anche questa volta non manca il mantra introduttivo: ormai
ci siamo abituati e leggere ogni volta lo sconcerto negli occhi dei fotografi è
uno dei momenti più ilari di tutta la serata. Si guardano intorno come cuccioli
sperduti nella tundra con un palese punto interrogativo sospeso sul capo. Alla
prima nota di Pure Morning si
percepisce distintamente uno spostamento d’aria: sono loro che sospirano di
sollievo.
Nota sulla scaletta: maledico, stramaledico e bismaledico tutti quelli che invocano da
anni i cambiamenti. I nostri cialtrons preferiti vi hanno finalmente
accontentati, ma a modo loro, tagliuzzando sconsideratamente qua e là senza un
apparente criterio se non la totale e cieca casualità. Eppure eravamo partiti
bene con 19 canzoni a Taranto, toccando vette inesplorate a Londra con 19 + 1 (e che +1! Cioè la cover di Let’s go to bed.
Cioè…). Qui arriviamo a uno striminzito 16. Ora, va bene che in un’ora di
concerto o poco più non si poteva pretendere di meglio e già è stata dura
digerire la dipartita di Nancy Boy e 36 Degrees, ma mi chiedo quale malvagia
divinità vi abbia convinti che tenere Too Many Friends e far fuori Without You
I’m Nothing sia stata una scelta oculata. Avete interrogato i fondi di miele di
manuka per stabilire che Slave to the Wage è una figata e invece Exit Wounds merita
la panchina?
Ok, è un festival. Questo
vuol dire che più della metà della gente non distinguerebbe Bitter End da
Bosco. Potevate pure suonare la Bella Lavanderina e per loro sarebbe stato
indifferente. Ma noi, insomma, tra Too Many Friends e Exit Wounds un pochino di
differenza la avvertiamo… Coincidenze? Io non credo!
Dopo soli 46 concerti,
accolgo invece con entusiasmo il trapasso, spero definitivo, di Running Up That
Hill. Come dire: bella, ma basta!
Di questo passo tuttavia, c’è
il rischio che a Sion facciano Pure Morning, Loud Like Love a 378 bpm e, se il
tempo lo permetterà, lo “scream” di Special Needs.
Nota di look: premettiamo subito una cosa, il fatto che Milano stia nel nord Italia non vuol dire che la temperatura sia le stessa del nord Europa. Siamo al SUD dell’Europa, immersi in piena Pianura Padana e con un clima medio che rende felici solo zanzare e rane. Chi diavolo vi ha consigliato di salire su un palco esposto al sole da giorni vestiti come se steste andando alla comunione di vostra cugina? Volete per caso vedere diventare realtà il verso: “Someone call the ambulance”?
Ma osserviamo nel dettaglio
questi guru della moda.
Stef:
sfoggia lo stesso outfit di Barolo dell’anno passato, si vede che si trova a
suo agio e sta fresco. Bolerino e pantalone palazzo, con canotta e converse:
insomma una mise che potrebbe donare solo a due uomini sulla faccia della
terra, lui e Stav
Strashko. Il tutto in un estivissimo nero pece. Il mio bassista ha il potere
soprannaturale di non sudare mai, ma a un certo punto anche lui si disfa della
giacchetta!
Bill: camicia
ovviamente nera, pantaloni ovviamente neri, scarpe da impiegato di banca
ovviamente nere, occhiali ovviamente neri. Per fortuna Bill ha anche il tipico
aplomb inglese per cui decederebbe per la calura con grazia e discrezione.
Nick: camicia
(pesante) nera, maglietta nera, jeggins pesanti neri: quest’uomo rischia di
esplodere per la ritenzione idrica!
Matt: ora,
evidentemente non si fa tesoro delle esperienze passate. L’anno scorso a
Firenze dopo 3 minuti il mio batterista aveva una fronte talmente infuocata che
avrebbe potuto illuminare il tunnel del San Gottardo in caso di emergenza. Sei
biondo, hai la pelle più bianca di Edward Cullen ma santo cielo, e mettilo un
cappellino! Invece no, ovviamo al caldo con una maglietta a gruviera e
sfoggiamo un paio di baffetti nel tentativo, vano, di dimostrare più di 17
anni.
Angela: e qui
tocchiamo l’apoteosi. Io ve lo dico: non serve a una mazza raccogliersi i
capelli e infilare una canotta se poi a tutto ciò si abbina una gonna di pelle,
degli stivaletti da montagna e soprattutto un collant 70 denari. Ripeto: UN
COLLANT 70 DENARI. Quando l’ho vista, ho avuto un mancamento, giuro. A un
certo punto ha improvvisato una danza frenetica suppongo più per tentare si
arieggiarsi che per un afflato musicale. Angela, tesoro santo, per rispondere
al tuo tweet in cui chiedevi come facciano gli italiani a essere sempre così gorgeous
nonostante il caldo: per esempio con 35 gradi e l’umidità al 433% NON
mettiamo le calze. Tantomeno quelle a 70 denari!
Brian: la speranza
di rivederlo in braghette viene spazzata via dai soliti jeans un tempo neri, la
camicia è sempre lei e ormai siamo quasi amici, persino gli stivaletti sono
quelli di sempre. Ma, Brian “rullo-di-tamburi” Molko indossa un paio di
occhiali (forse) nuovi! In men che non si dica scoppia il “MOLKOGATE”: Rayban,
Revo, Marc Jacobs, Persol; in un attimo l’aere risuona di marchi di occhiali da
sole sparati a caso. La sindrome da “DEVOAVERLI” si diffonde in meno di 47
secondi. Nei giorni successivi pare che i centralini di Luxottica siano andati
a fuoco, sembra che siano stati reclutati i migliori Sunglasses Hunters e che insiders
debitamente prezzolati siano stati introdotti nelle più importanti aziende.
Purtroppo, a oggi, l’arcano non è ancora stato svelato sebbene le ipotesi più
accreditate siano 3:
-
se li è fatti prestare da una promoter della condom
(nessuno gli ha spiegato che in italiano prestare non è sinonimo di regalare…);
-
li ha presi su un banchetto in spiaggia a Taranto
pagandoli con una banconota da 7 euro;
-
è un modello del 1985, cui ha fatto sostituire le
lenti per graduarle (vi ricordo che in prima fila vede solo teenager…)
L’occhiale da sole in oggetto è apprezzabile anche per il fatto che,
avendo le lenti rosse, non cela del tutto l’occhio debitamente truccato.
Peccato per la spatolata di fondotinta, per il conturing color terra di siena
tirato con il righello e per il gloss rosato (no, proprio no!): stiamo
migliorando, ma la strada è ancora lunga!
Nota
generale: nonostante il caldo, nonostante le zanzare (che evidentemente hanno
pizzicato anche il mio cantante), nonostante l’umidità, i nostri vanno alla
grandissima e ci regalano 75 minuti di pura felicità. Sono carichi, allegri e
grondanti come se avessero incontrato un intero branco di lama: Brian limona
pesantemente con il microfono e ammicca alle fan che lo salutano (sarebbe
stato preferibile il contrario ma tant’è). Non ci si spreca in chiacchiere
purtroppo: i soliti saluti, i soliti ringraziamenti e le solite farfalle. Ecco,
un piccolissimo appunto: il mio cantante è un fanfarone e un orrido mentitore
perché è inutile che cerchi di sfoggiare una frase da rimorchio da anni 70 e
poi quando qualcuno ti risponde, anzi ti urla, che sì, questa benedetta
“colizioni di farfalle” è ora di vederla, fai orecchie da mercante e abbozzi un: “Ah no?
Be’ pazienza, non mi offendo!” Non si fa così, non si getta il sasso e poi si
ritira la mano! E poi, non sarebbe il caso di cambiare frase con qualcosa di
più originale? Che so: vuoi venire a
vedere i miei coleottori d'Egitto? Oppure i miei stercorari da combattimento? Oppure
la mia zucchina? Oppure un banale: Posso offrirti l’onore di offrirmi qualcosa?
La verità però è che a
Milano si respira una bella energia che ripaga noi e loro (spero). Brian
elargisce feromoni riattivando gli organi vomeronasali degli astanti e sfatando
così le teorie scientifiche secondo cui questa parte del corpo non è funzionale
negli esseri umani e tira fuori una voce che fa increspare la pelle, anche più
del solito. L’aria è pregna di musica, canti, gioia e, purtroppo, di un leggero
sentore di Pringles al formaggio.
Quando risuonano le prime
note di Let’s Go To Bed, il pubblico
esplode definitivamente: è una gioia incredibile e inaspettata sia per chi
l’aveva già sentita a Londra ed era inevitabilmente entrato in fissa, sia,
soprattutto, per chi a Londra non aveva potuto esserci e quindi già disperava
di poterla mai sentire. Un gran bel regalo, grazie! (Tranquilli: anche questa
volta non è mancata la solita voce fuori del coro: “Il nuovo singolo, che
figata!”)
E poi è un attimo: si chiude con Infra Red, stranamente. Saluti, baci, namasté e siamo
lieti di cedere il palco a Noel… ah no, ecco questo forse me lo sono sognata!
(Per chi non lo sapesse, non corre esattamente buon sangue fra i Gallagher e i
nostri… roba vecchia eh e, anche se Brian non è sicuramente una persona che
porta rancore, ho il sospetto che preferirebbe darsi fuoco piuttosto che
pronunciare quel nome su un palco. Senza rancore, ovviamente!). In compenso ho
capito che cosa ha fatto Molko in questi lunghi mesi di assenza: il corso “portamento da baldracca 2.0”.
Giuro, io una sculettata così non la vedevo dai tempi di Naomi Campbell in
passerella, a un certo punto ho pensato di essere in una puntata di Project Runway
e da un momento all’altro mi aspettavo di sentire l’“Auf
Wiedersehen” di Heidi Klum
E poi è finita davvero e
noi cediamo il posto a chi si ferma, la stanchezza arriva tutta in un colpo e
la fame pure! Mentre arranchiamo verso l’uscita, scortate da nugoli di zanzare
inferocite, ci guardiamo intorno sgomente chiedendoci come diavolo abbiamo
fatto a percorrere tutta quella strada senza stramazzare al suolo e con la
consapevolezza di avere davvero compiuto un’impresa, ci accasciamo da un
paninaro a consumare adrenalina e junk food sulle note stonate di The Final
Countdown.
Dopo aver riaccompagnato a
casa alcune compagne di avventura/sventura, finalmente mi dirigo verso casa,
pregustando già la combo doccia/letto.
E invece no…
Una cosa mi attraversa la
strada.
Una ragazza insegue la cosa
urlando: UGOOOO!
Un ragazzo insegue la
ragazza che insegue la cosa urlando: PAOLAAAA!
Inchiodo.
La macchina dietro mi
tampona, ma poco. E io, distrattamente e senza un vero perché, mi soffermo a
pensare che non ho visto Brandon.
Scendiamo tutti dalle
macchine.
La cosa che mi ha
attraversato la strada si è rifugiata sotto un’auto dei carabinieri.
La cosa che mi ha
attraversato la strada e che si è rifugiata sotto un’auto dei carabinieri è un
furetto.
UN CAZZO DI FURETTO. A MILANO. ALL’UNA DEL MATTINO.
Ci inginocchiamo tutti (io
più o meno visto che sto ancora sanguinando), cercando di stanare la povera
bestia che sta potpottando come un’ossessa. E vi assicuro che non è un suono
per nulla rassicurante.
IO: Ugo…
Una voce: Eh?
IO: Ugo?
Una voce: Cosa?
Non ci sto più capendo niente,
forse sono troppo stanca ma non mi pare che i furetti parlino… Insomma alla
fine viene fuori che: Ugo è il fidanzato di Chiara, la proprietaria di Paola,
il furetto. CICCI, FUFFI, POPPY: questi sono nomi da furetto. NON PAOLA!
Improvvisamente, un urlo
belluino: il carabiniere (ragazzo giovane e particolarmente piacente, per
altro) estrae la mano da sotto l’auto con attaccato il furetto Paola. Ora, io
non so se voi ne siate a conoscenza, ma queste bestie hanno dei denti micidiali
e quando mordono è complicatissimo staccarle. Ugo è bianco come un cencio e
credo stia per svenire, dico allora a Chiara di fare qualcosa e la sciagurata
scoppia in singhiozzi: “E se le faccio male????”
Oh signore aiutami! Perché? Perché a me? A che
sterminio ho partecipato nella mia vita precedente per avere un karma così di
merda?
In ogni caso sappiate che in
queste situazioni disgraziatamente fantozziane, uno smartphone e una buone dose
di preghiere sono sempre utili: prendete il furetto per la collottola,
soffiategli sul musino, invocate tutti i santi e sibilate (non urlate):
“Mettigli quel cazzo di collare! Adesso!” (www.furettomania.it)
Insomma: Paola sta bene, il
carabiniere anche (credo, tuttavia, che una passata al pronto soccorso l’abbia
fatta), io sto bene (a parte il ginocchio sbucciato), Chiara e Ugo penso si
siano lasciati. Ma soprattutto: CHE FINE
HA FATTO BRANDON?
Ringraziamenti:
questa è stata la mia transenna del cuore, davvero. Perché stavolta io la
transenna non me la sono affatto guadagnata, perché non corro per tutta una
serie di problemi, perché la strada era davvero troppa, perché faceva un caldo
da impazzire. Questa transenna mi è stata letteralmente regalata da una persona di quelle che raramente incontri, una
persona che sono fiera, felice e orgogliosa di poter chiamare ogni giorno non
soulmate ma AMICA! E grazie anche alle mie cuoricine (you know exactly
who you are!) che mi hanno accudita, coccolata e curata nelle ferite non solo
del corpo ma anche del cuore. La mia forza non è il vigore, non è la volontà,
non sono le parole afrodisiache, la mia forza siete voi: siete le migliori e vi
meritereste tutte un bacio in bocca da Molko!
SEE YOU IN SION BABIES!
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Le illustrazioni sono, come sempre, di quella strafiga
di Nicoletta Baldari
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