LONDON, 16 giugno 2018

I ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia.
[Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve]
(ovvero di quando parti con una buona dose di scoramento e affidi alla città che ami di più il difficile compito di farti dimenticare la disfatta autunnale. E poi, inaspettatamente, ti godi ogni momento assaporandolo come fosse l’ultima goccia di vino che giace sul fondo della suddetta bottiglia)

Era il 6 marzo quando, tra squilli di trombe, fuochi d’artificio e fanfare sulle note di Nancy Boy, con un tweet i nostri annunciarono la data di Londra e la partecipazione al Meltdown festival organizzato nientepopodimenoche da Robert Smith! Penso mi si siano annullate le funzioni vitali per almeno 5 minuti buoni. Quando ho ricominciato a respirare la prima cosa che ho pensato è stata: “non ci credo non ci credo non ci credo”. La seconda è stata: “merda, devo mettermi a dieta” (certo, perché vista la conclusione non eclatante dell’ultimo tour e prospettandosi un anno di vuoto pneumatico spinto, ho pensato bene di darmi al cibo consolatorio). Sappiamo a stento la data e poco altro ma tanto basta per prenotare case, vicoli e palazzi.
Era il 7 marzo quando sono diventata l’orgogliosa proprietaria di una Membership Card del Southbank Centre. Certo, perché quando scopri che per accedere alla prevendita serve essere soci di un polo espositivo e centro eventi che probabilmente non ti vedrà mai partecipare ad alcunché, quanto tempo ci vuoi mettere a decidere di sborsare (anzi donare, come amano sottolineare gli amici di Southbank) quelle 69 sterline? Due minuti? Tre? Il tempo di fare le scale e afferrare la carta di credito, insomma.
Era il 13 marzo quando, armata di speranza e posizionata in una sala dei bottoni da fare invidia a Edna Mode, mi apprestavo a combattere la mia personale battaglia contro RDM (resto del mondo). Entro nel sito, si aprono le vendite e… ho davanti 2585 persone. Ripeto: 2585 PERSONE! Eh certo, perché questi geni di Southbank hanno messo in vendita contemporaneamente i biglietti per TUTTI gli show del festival. Così i fan dei Placebo, che già per antonomasia hanno una dose di sfiga non indifferente, si trovano pure a dover stare in fila con i fan dei NIN, per dire… Poi, il miracolo: grazie a un’abile sodalizio italo-svizzero riusciamo ad avere 6 biglietti in posti più che buoni. Non sarà una prima fila ma, visto come stavano andando le cose, è già molto così. E sì, lo so che il limite di acquisto era di 4 biglietti, non chiedetemi come sia stato possibile averne 6. Vi dico solo che tutto ha un costo, e a Southbank applicano alla lettera questo detto.
Era il 20 marzo quando ricevo un pacco sospetto da Londra. Oh, to’, la tessera gialla in plastica pesante di Southbank. Suppongo mi sarà utilissima per preparare affettare la verdura per la ratatouille. Poi, ok la tessera, ma i biglietti? Contemporaneamente scoppia lo scandalo rivendita clandestina: su ViaGogo (bagarinaggio puro) spuntano due biglietti in prima fila per il concerto dei Placebo alla modica cifra di 1003 euro l’uno. Ora, a parte voler conoscere il pazzo che ha pensato di comprarli, vorrei anche vedere la faccia di chi li ha messi in vendita. Soprattutto per chiedergli: “Ma ‘sti 3 euro? Funzionano come la donazione coatta a Southbank? Servono per un caffè shakerato? Fammi capire…”
Era il 13 aprile quando, a Londra in tutt’altre faccende affaccendata, decido di recarmi a Southbank per capire se hanno bisogno di una mano per imparare a generare i PDF dei biglietti. “Li spediremo una settimana prima del concerto. Sa, per evitare il bagarinaggio.” Ah, ok. Tutto chiaro. In effetti ci sono luoghi del pianeta in cui una mail per arrivare ci mette ancora più di una settimana. Cialtroni pure voi. Con chi credete di avere a che fare? Siamo italiani, fiutiamo l’inefficienza a milioni di chilometri di distanza!
Era l’11 giugno (- 5 giorni al concerto): i biglietti vengono spediti solo a chi li sollecita. WTF? Sollecitiamo. Arrivano. Ne manca uno. Ripeto: NE MANCA UNO. Risollecito. Arrivano giusti con mail minatoria allegata: brucia quelli che ti abbiamo inviato prima! Ma finalmente, posso respirare. Illusa…
Era il 13 giugno quando la mia band, quella che doveva stare ferma un anno per lavorare al nuovo album, quella per cui meno di una settimana fa ho preso calci e pugni, annuncia una data a Kiev. No, no e poi no! Intanto che controllo i voli arriva una telefonata: tra i rantoli e un principio di embolo respiratorio, percepisco le parole: BIGLIETTI, SECONDA FILA, ADESSO. Escludendo, forse, che si tratti di un maniaco, entro sul sito di Southbank, mi loggo e scendo a prendere la carta di credito che sta cercando di scappare dalla porta del garage. Dopo 20 minuti sto saltellando per casa come un’attempata Britney Spears canticchiando Oops! I did it again. Sì, l’ho fatto di nuovo: ho comprato il Southbank Centre! Del resto, dopo aver acquistato l’Arena di Verona, essere diventata azionista di compagnie aeree e catene alberghiere, perché farsi mancare un centro eventi? Per esempio potrei organizzare delle cerimonie multi lingua e pluri rito per la tumulazione dei conti correnti di poveri fan incapaci di intendere e volere. L’offerta è estesa a chiunque segua una band qualsiasi: se ne seguite due, naturalmente avrete lo sconto e la bara glitterata con sbalzo in metallo per la scritta HOPE IS IMPORTANT. A conclusione della giornata, Sminchio fa pipì sui biglietti appena stampati. Coincidenze? Io non credo.
Era il 14 giugno quando altri due eventi mi offrono un quadro abbastanza preciso del futuro: le mutande che stavo per mettere in valigia mi finiscono nella ciotola dell’acqua del gatto e del fumo mi entra dalla finestra della camera dove ho appeso il vestito che ho scelto per il concerto. Sono i nuovi vicini che stanno evidentemente grigliando anche la nonna bicentenaria: ottimo, andrò al concerto travestita da braciola!
È il 15 giugno quando finalmente atterro a Londra con ventordicimila impegni di lavoro da sbrigare, una stanchezza ormai atavica e, chiaramente, l’abbigliamento sbagliato. La primavera londinese NON è come quella italiana, ormai dovrei saperlo. E invece no! In preda a una botta di ottimismo butto in valigia solo abitini leggeri, nemmeno un paio di calze, un ombrello e un impermeabile ma di maglioni manco a parlarne. Risultato: bora triestina, mista a un solleone amalfitano. Roba che persino Arturo Brachetti, mago del travestimento, non saprebbe gestire. In un momento di tranquillità decido di esplorare Regent’s Canal e il fatto che mi commuova davanti a cuccioli di anatre e cigni, è segno che il mio povero cuoricino si sta già trasformando in quell’ammasso di panna montata melenso e sdolcinato che raggiunge il massimo della zuccherosità in concomitanza più o meno con la fine di Jesus’ Son.
Arriviamo al 16 giugno. È un evento raro quanto l’efficacia dell’epilazione definitiva riuscire ad avere del tempo il giorno stesso di un concerto: so esattamente come riempire 12 ore di fila consecutive ma il fatto di avere una giornata totalmente libera mi lascia completamente spaesata. Quasi quasi vado comunque a mettermi in coda davanti alle porte del Southbank Centre… Per fortuna lo smarrimento è solo momentaneo e le 18 arrivano fin troppo in fretta. È ora di entrare ma insomma… devo ancora baciare almeno 47 persone che non vedo da troppo tempo, bere un bicchiere di vino e fumare una sigaretta: siano sempre benedetti i concerti con posti assegnati, in secula seculorum!
Siamo in seconda fila, la visuale è ottima, il palco basso (ammetto che per qualche secondo ho valutato l’invasione di campo ma avendo io notoriamente l’agilità di un comodino, sarei inciampata nei miei stessi piedi prima di muovere il primo passo): meglio di così ci sarebbe stato davvero solo il camerino!

Arriva il gruppo di apertura: to’ sono le Sacerdotesse di Avalon. Al primo grido, sobbalzo sulla sedia: sono le Sacerdotesse di Avalon, stonate! Da un momento all’altro mi aspetto che attacchino la litania “Leggera come l’aria, rigida come un tronco” e mi vedo già tutto il pubblico fluttuare a mezzo metro da terra, effetto che per altro si sarebbe raggiunto poco dopo senza bisogno di ricorrere a formule magiche ma semplicemente grazie alle prime note di Pure Morning. E invece queste tre wicca parlano pure una lingua incomprensibile: pare siano islandesi, anche se io potrei giurare di averle sentire declamare: “vieni vieni patatone” e “no frau no frau”. Dopo circa 30 minuti di suoni degni di un fischietto accalappiacani, le tre vengono allontanate senza troppi complimenti, non ho capito se l’organizzazione temesse una manifestazione soprannaturale sul palco oppure se con i loro gorgheggi stessero mandano in vacca tutto il settaggio audio. 

Durante l’intervallo, mentre preparano il palco, un marcantonio di due metri sbircia la scaletta già incollata al pavimento e mi annuncia con soddisfazione che Nancy Boy è tornata in scaletta ma 36 Degrees no: pazienza, meglio che nulla!

In realtà la scaletta è identica a quella di Taranto di una settimana prima (per cui non mi ci soffermerò) con una piccola ma splendida new entry che va a sommarsi a ben altre 4 novità! Eccole in un comodo elenco:

1. Brian indossa degli stivaletti nuovi, incredibile ma vero. Sono di pelle nera, la forma pulita e affusolata con cerniera posteriore. Tuttavia ho una perplessità: è vero che gli uomini hanno i piedi più lunghi, ma santo cielo, questo sarà almeno un 46! Che oggettivamente per chi è alto un metro e tanta speranza è tantissimo. Quindi i casi sono due: erano sullo scaffale delle offerte e il mio cantante ha preso un numero a caso e poi li ha imbottiti con il cotone oppure “qualcuno” si sta trasformando in uno Hobbit!

2. Stef indossa delle Converse nuove: evviva! Uguali a quelle precedenti ma la suola immacolata e non tenuta insieme dallo scotch le classifica immediatamente come MAI USATE. Gli ultimi concerti con i Digital 21 devono essere andati meglio del previsto.

3. Archiviato definitivamente il look da battonazza della Valassina, Brian sfoggia un trucco sugli occhi chiaramente ispirato a Bulle Ogier nel film Maîtresse. Assolutamente apprezzato (e speriamo che l’ombretto glitter blu sia stato donato a qualche associazione per la riabilitazione delle MUA infette!).


4. Stef indossa una maglia nuova. Oddio, per definirla maglia, in effetti, ci vuole una buona dose di immaginazione. Di primo acchito, mi chiedo se abbia subito un’aggressione lungo il cammino da casa a Southbank perché non posso credere che qualcuno abbia avuto l’ardire di mettere in vendita una “cosa” così brutta. Su Wish si trovano cose sullo stesso stile vagamente BDSM di foggia decisamente migliore e con spese di spedizione gratuite! Per fortuna il mio bassista ha un bel fisico e, tutto sommato, quella roba gli sta pure bene. E no, non voglio proprio immaginarmelo Brian con lo stesso look. 

Qualche considerazione sparsa:

Ci sono effettivamente alcuni problemi di audio, tanto che sulle note di PURE MORNING il povero Brandon è costretto a regolare gli auricolari ancheggiando aggrappato per diversi minuti alle sacre terga del mio cantante. Improvvisamente trovo la risposta a una domanda che mi tormenta da anni. “Cosa vuoi fare da grande?” “Che domande, io da grande farò IL BRANDON!”

Prima di JESUS’ SON è il momento dei saluti: “Ladies and gentlemen, and those of you who find yourself somewhere in-between. And Steve. Steve?” E ‘mo, chi è ‘sto Steve? Anni a scervellarsi sull’identità di Julian e di Kitty e ora spunta pure Steve… Mi viene il sospetto che sia un gioco di parole che io chiaramente non capisco perché intorno a me ridono tutti. O forse è semplicemente la sindrome da “QANUN IS OUT OF TUNE”, la cui sintomatologia è piuttosto semplice: qualsiasi parola Molko pronunci al di fuori dello standard provoca un’immediata reazione di ilarità isterica uniformemente diffusa e incontrollabile. Se qualcuno ha qualche spiegazione plausibile, cortesemente mi contatti in privato. Grazie!

L’acustica fa oggettivamente un po’ schifo, per lo meno davanti. Però sono certa di aver sentito un paio di piccolissime steccate su WITHOUT YOU I’M NOTHING, su BITTER END e su TOO MANY FRIENDS (e una qualche biascicata su TWENTY YEARS). Ora, io proverei a pensare di cambiare qualche tecnico del suono… Basta dirlo, in 20 minuti posso prendere il diploma a Scuola Radio Elettra e sono pronta!

So di avere sfoggiato in questa occasione alcune delle espressioni di cui vado più fiera, chiara manifestazione della mia intelligenza e acume. Per esempio su DEVIL ed EXIT WOUNDS ho più o meno lo stesso sguardo di Winnie The Pooh davanti al suo vaso di miele, ma un po’ più ebete, mentre il broncio alla Signorina Silvani che Brian ostenta alla fine di I KNOW mi trasforma immediatamente nel più servile dei Fantozzi.

Al primo encore sono pronta a saltare su NANCY BOY. E invece no: eccola qui la vera, grande sorpresa della serata. All’inizio sono attonita, non capisco esattamente cosa sia (anche perché l’urlo diretto nel timpano destro mi impedisce di pensare lucidamente). Anche stavolta si sente distintamente un grido disperato e speranzoso: “Che figo, è il nuovo singolo”. Ma brutto avanzo di idiozia male assemblata, guardati intorno. Non vedi che più della metà del pubblico sta cantando? Ma cosa credi? Che Molko&Co siano andati a suonare privatamente nel salotto di ognuno degli astanti e a insegnare loro le parole? I fan, quelli veri…
Trattasi in verità della cover di Let’s Go To Bed (in ogni caso a scanso di equivoci la risposta è sì. Come? Non era un invito? Mannaggia!) dei The Cure. L’esecuzione risponde perfettamente alla regola delle tre I: Inenarrabile, Irripetibile, Immensa.
Soprattutto, temo, irripetibile.  Chissà, infatti, se questa cover farà parte dell’album che uscirà il 32 del mese di mai dell’anno nonseneparla?

Su RUNNING si registra il decesso definitivo della pedaliera. Una tragedia annunciata per altro: Molko ha sudato come una maratoneta all’ultimo miglio e tutto il gocciolare, unito a delle pestate ben assestate con quegli stivaloni nuovi, hanno accelerato la dipartita dell’aggeggio.

In men che non si dica siamo in piena fase POST GIG

Non ho esattamente capito come, con l’aggiunta di una sola canzone, la durata del concerto sia passata da 1 ora  e 30 minuti a 2 ore abbondanti, sta di fatto che quando usciamo sono già quasi le 23. Di solito, da brava fan attempata, a quest’ora sono a un passo dalla fase REM. Invece mi sento arzilla come un salmone norvegese in procinto di risalire le correnti. Benché siamo perfettamente coscienti del fatto che ci sono più probabilità di bere l’acqua del Tamigi senza finire in ospedale piuttosto che vedere i nostri uscire e, anatema!, firmare due autografi in croce, ci tratteniamo al varco del backstange per il ragionevole tempo di qualche ora. E sono ore bellissime, nonostante il freddo, perché sono le ore in cui l’adrenalina in circolo ti fa dire le peggiori battute, ti fa scendere il livello di trivialità sotto le scarpe, ti fa ridere per qualsiasi immagine evocata, tira fuori un umorismo talmente di bassa lega che anche il camionista più volgare arrossirebbe come un’educanda.

Quando è ormai evidente che rischiamo la morte per congelamento (visto che, in barba alla temperatura anglosassone, ci siamo agghindate tutte come se dovessimo andare a cena con il cantantino, che naturalmente non ha minimamente potuto apprezzare la cosa) e che non è assolutamente tollerabile che l’attesa di un cenno, uno sputo o un insulto superi la durata del concerto stesso, decidiamo di ritirarci.
“Separarsi è un sì dolce dolore, che dirò buona notte finché non sarà mattina!”
E, infatti, ci vogliono circa 5 false partenze prima di salire davvero su un taxi! Ma c’è ancora tanto tempo per sognare… e ancora due date da gestire!

Senza un vero perché apro una piccola parentesi lamentosa e polemica (tanto per non farci mancare nulla!)

A voi, fan molesti solo un breve pensiero: il fatto che Molko vi faccia un sorriso in più non vi autorizza a comportarvi come dei trogloditi tarantolati occupando lo spazio di 7 persone (soprattutto quando non avete certo la stazza di un Puffo), simulando orge e accoppiamenti con oggetti non meglio identificati e ballando la lambada sulle note di Protect Me. Ora, potrebbe sembrare che io sia la classica straccia palle che “se ci sono i posti assegnati bisogna stare seduti e non muoversi e non respirare gne gne gne”. No, non è così: anche io ballo, canto, urlo e salto. Ma di certo non mi struscio su 4 sedie mostrando le terga a palco e pubblico, non mi spidocchio strappandomi e capelli e non agito le braccia per 2 ore consecutive come fossero pale eoliche in piena tormenta di vento. Questo non è partecipare a un concerto: questo è scartavetrare le palle e le ovaie altrui!

Da questo viaggio ho tuttavia imparato due cose:
1. Voglio volare in business tutta la vita: hanno un vino che fa piuttosto schifo, ma dopo due bicchieri, gratis, dimentichi il fatto che se Dio avesse voluto farti volare, ti avrebbe fatta nascere piccione.
2. Essere nel posto giusto al momento giusto è sicuramente gratificante. Ma, essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, con le persone giuste è molto più divertente. Ringrazio tutte le mie compagne di avventura (mi rifiuto di chiamarvi soulmates, dato che, ultimamente, sembra essere un sinonimo di “indovina chi ti pianta il coltello fra le scapole”) per le risate, le battute, le coccole, i baci e gli abbracci. Per avermi scaldato il cuore così tanto da non farmi nemmeno sentire la temperatura gelida (non diamone sono il merito al piccolo infame, suvvia). Per le disquisizioni tricolofilosofiche e le manovre logistiche degne della CIA. Per essere delle vere “children of the night” e per sfoggiare con orgoglio la depressione e le occhiaie post gig. Whitout you I’m nothing, at all.

Next gig: Milano!



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Le illustrazioni sono, come sempre, di quella strafiga di Nicoletta Baldari

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