1 maggio – Porto 

 “E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa?” 
[Fernando Pessoa] 
 (ovvero di quando una palestra collocata nel mezzo del nulla ti sembra il posto migliore per trascorrere 14 ore della tua vita)


Per non essere da meno della vicina Spagna, anche il Portogallo mi accoglie con uno scroscio di pioggia beneaugurante: evviva! In effetti, con una temperatura sopra i 10 gradi e uno scorcio di sole avrei quasi potuto sentirmi a disagio… Noleggiare un’auto sembra una delle sette fatiche di Ercole: tutto chiuso, non abbiamo macchine, riconsegna tassativa in aeroporto, fai una giravolta, falla un’altra volta, circumnaviga a passo di fado l’aeroporto fino all’estremità est e lancia il grido di richiamo della mangusta nana comune.

Cedo sull’ultima richiesta e opto per un comodo Uber (non ricordo il corrispettivo del nome portoghese, anche perché mi pare che ripetano sempre tutti la stessa parola, che suona tipo così: ajuajsiajdaji). Peccato che ignoriamo che questo servizio sia totalmente illegale anche in Portogallo, per cui non può portarci fino all’albergo che sta di fronte alla stazione perché sarebbe pericoloso, per noi e per lui. #benemanonbenissimo Siccome continua a piovere, decido di prenderlo come un segno del destino e penso che sia arrivato il momento di fare la persona saggia e matura assecondando i bisogni primari: dormire e farsi passare l’influenza.

L’albergo che ho scelto, Poveira, rispecchia esattamente la mia situazione economica attuale, quindi devo dire che le aspettative non erano altissime. E infatti in men che non si dica mi trovo catapultata sul set di Goodbye Lenin: gli anni 70 sono i nuovi 2000. Non mi azzardo nemmeno ad accendere il residuato bellico che dovrebbe essere la tv, la tenda della doccia è verde palta e l’armadio non viene aperto dal 1985. Detto questo, ovunque aleggia un confortante odore di candeggina e, miracolo, il bagno ha finestra e BIDET! Cado praticamente in coma non vigile e mi risveglio dopo qualche ora, pronta per affrontare la mia cena portoghese. Il posticino che abbiamo scelto è caratteristico e molto piccolo. Quando arriviamo, da fan disagiate quali siamo, vediamo due persone davanti alla porta e subito, come rispondendo a un riflesso incondizionato, ci mettiamo in coda. Come quando ci si imbatte in una transenna a caso, che sia per circoscrivere un tombino o tenere a bada i seguaci del mago Otelma poco importa, istintivamente ci si posiziona dietro. Ma nulla, senza prenotazione non si entra. Maledizione, non posso credere che procurarsi del cibo rischia di diventare l’ennesima complicazione. Per fortuna dopo solo un paio di tentativi portiamo a casa la razione quotidiana di prosciutto (ormai il mio stomaco sta diventando un filtro naturale per jamon di varia stagionatura!) e la ricaduta nel coma è la naturale conseguenza.

Quando mi rianimo, scopro che è mattina e, soprattutto, c’è il sole. Sento già che la giornata sarà positiva e in uno slancio di entusiasmo indosso i sandali più aperti che ho rischiando in ogni caso la perdita delle estremità perché, comunque, non ci sono più di 10 gradi… A un’ora assolutamente accettabile partiamo alla volta di Gondomar, la cui assonanza con la Gondor alla soglia della Guerra dell’Anello non mi pare assolutamente casuale. Il regno tolkeniano, infatti, dopo un passato prospero e rigoglioso, era stato ridotto a un territorio desolato e minuscolo da un’invasione e da un’epidemia che gli erano state quasi fatali. Ecco, qui deve essere successa più o meno la stessa cosa. Non c’è nessuno (non che mi aspettassi il contrario, nonostante siano le 10 passate), non c’è nulla…
Lo skyline è delimitato a nord-est da una Lidl e a ovest da un’area attrezzata per fare grigliate, con bagno annesso. Questo Multiusos è semplicemente una enorme palestra dove, suppongo, si disputino feroci partire di basket fra Gondomariani e Paredesiani. Con raccapriccio scopro che ci vivono quasi 170mila abitanti, forse arroccati sulla montagna… Monte Crasto per la precisione, che dovete scalare per forza se volete addentare una fetta di pizza… Nonostante non ci sia assolutamente nulla, nonostante l’unico rappresentante del genere umano sia una tizia sui 60 dall’evidente igiene personale approssimativa, che continua a girare intono alla palestra, nonostante la comodità dei muretti al sole, in tre su quattro riusciamo a pestare l’unica merda di cane nel giro probabilmente di chilometri. Porterà anche fortuna ma, come dire, #muchamierdastaceppa…

A smentire le credenze che gli svizzeri sono persone fredde e calcolatrici, la nostra socia elvetica decide che è tempo di una bella grigliata e in men che non si dica saccheggia la Lidl procurandosi anche della carbonella, fa amicizia con un gruppo in gita a Gondomar (sicuramente una succursale di qualche reparto di igiene mentale in vacanza) e ritorna con verdure, carni, pane e generi di conforto di ogni tipo. È la prima volta nella storia che sento di una grigliata fatta durante la coda per un concerto dei Placebo. Ma mi pare una buona tradizione da introdurre.


Nel corso della giornata arrivano quelle 15-16 persone e devo dire che sono anche tutti molto simpatici e gentili. Stranamente anche l’organizzazione sembra essere efficiente. Ma vuoi vedere che questo Gondomar non sarà poi così male? Alle 7 spaccate ci fanno entrare, gli scan funzionano bene, nessuna perquisizione, arrivo in transenna con sufficiente calma. Tutto ciò ha del surreale… Mi pare pure di essere in una buona posizione, anche se il palco è molto alto. Riesco addirittura ad andare in bagno e tornare senza perdere nemmeno un millimetro di postazione. Dal tipo di fianco a me (carino e per altro fan dei Muse) apprendo inoltre che è consentito fumare, quindi non posso nemmeno cazziare la tipa dietro di me che in 5 minuti ha fatto fuori mezzo pacchetto (nonostante io fumi, mi dà noia l’odore negli ambienti chiusi e poi ho appena lavato i capelli, porcocazzo…) L’unica nota dolente è il tipo della security che è preso da un entusiasmo inspiegabile e si dedica a manovre solipsistiche proprio sotto i nostri occhi. Indagando sempre con lo stesso ragazzo scopro che è una pratica piuttosto normale per i portoghesi e io prego molto intensamente che non distribuiscano bicchieri d’acqua!

Come sempre si comincia con i Digital 21 e io a questo punto vorrei davvero fare un appello: va bene tutto, però cercare di bruciare le retine del pubblico o provocare degli attacchi epilettici non mi pare una mossa vincente. Le luci sono davvero accecanti e spaventose, per la prossima volta si potrebbero evitare? Grazie! È la volta dei nostri e io, senza un vero perché, mi trovo a pensare che mi manca qualcosa rispetto ai soliti concerti.

Per tutta la durata del video di Every You Every Me mi interrogo sull’origine di questa mancanza. Poi, d’improvviso, un’illuminazione: non c’è puzza! Di birra, canne, sudore, piscio, umori di varia natura, spazzatura… Mi sembra il paradiso: a Gondomar il rock non puzza!
Quando Brian entra io sento forte il desiderio di essere un opossum… Sapete, gli opossum sono animaletti estremamente intelligenti e si fingono morti in situazioni di forte stress. Ecco, per me essere proprio davanti al cantantino è una fonte di stress incontenibile oltre che essere una cosa di una pericolosità estrema. Forse fingersi morta mi salverebbe da una figura di merda epocale. Anche fingermi sorda potrebbe aiutare, e in fondo un po’ lo sono davvero, quindi sarei anche avvantaggiata. Vedo di concentrarmi su altro e analizzo l’outfit serale: uguale a Madrid. Camicia di Hogwarts, pantaloni con cerniere e stivaletto bicolor.
Se tanto mi dà tanto per Lisbona prevedo: camicia a pois dismorfici da controllore ATM, pantaloni con cerniere, stivaletto nero stringato. Ora, passi per le camicie che una lavata, un’asciugata e una stirata si fa pure in fretta a farla. Ma i pantaloni… a me piacciono, ben inteso, tuttavia comincio a sospettare che ci sia un addestramento più profondo in atto. Ben presto saranno in grado di salire sul palco da soli, suonare, cantare e intrattenere i fan. Forse per la fine del tour riusciranno anche a firmare autonomamente degli autografi.

Stasera torna la presentazione della band, pace fatta! Stef è sempre la nostra Queen of Sweden, Matt non si scrollerà mai di dosso l’etichetta di “nuovo acquisto” e Nick è il little brother. E qui, davvero, mi chiedo in quale universo parallelo Nick può essere associato all’aggettivo little… Ritorna in auge anche l’ingiustamente abbandonato “and you can call me whatever fuck you want”!
Scopro di avere una nuova ossessione che si chiama Space Monkey. Una canzone che avevo sempre sottovalutato finché non mi sono fermata ad osservare le mani del mio chitarrista che maltrattano le corde… ed è subito felicità. Quando poi mi strascica ansimando la fine della canzone ecco che la felicità è condita da quel filino di bava caratteristico che è il segno distintivo di ogni fan che si rispetti. Un altro motivo di orgoglio sono gli scatti isterici su Exit Wounds e Protect me. Quest’ultima ormai famosa anche per l’esibizione del “guarda mamma, suono la chitarra senza mani e contemporaneamente dirigo il traffico”! Su For What Its Worth, alla fine, senza motivi apparenti se non un attacco di iperidrosi, brian si scrolla come un mini San Bernardo reduce da una passeggiata sotto il diluvio. E l’effetto è più o meno quello, visto la pioggia di sudore che sparge ovunque. Non che la cosa sia deprecabile, anzi! La comfort zone di Bitter End è esplicata da un abbraccio coccoloso alla chitarra e io mi sciolgo d’amore come una marshmallow intinto nel cioccolato fuso e passato sulla fiamma di un Bic.
Poi, il disastro. Brian regala un plettro a un ragazzo della prima fila e io, del tutto irrazionalmente e ingiustificatamente, vengo colta da un attacco di tristezza infinita e di gelosia (si è inutile nasconderlo) inutile. Io, che di plettri, setlist, bacchette non ho mai saputo che cosa farmene. Io, che quando mi sono trovata un plettro nella borsa, non ho nemmeno capito come ci sia arrivato. Io, che quando il concerto finisce, mollo subito la transenna per lasciare il posto a chi vuole accapigliarsi per prendere qualcosa.
Io, gelosa? Eh no, non va per niente bene! - non mi godo la fine del concerto perché continuo ad autoinsultarmi; - mi sento un’idiota e grazie al mio innegabile body language, temo che mi si legga in faccia; - non mi piace per niente questa sensazione e voglio che passi il prima possibile!

In un modo o nell’altro arrivo alla fine con una sete paragonabile a quella di Tantalo, benedico di non essere riuscita a cambiare il biglietto del treno per Lisbona perché ho bisogno disperatamente di dormire. Ci sono circa 10 gradi in meno rispetto a quando siamo entrati e me ne accorgo perché le gambe mi tremano talmente tanto che le ginocchia battono il ritmo della Chucaracha.
L’ultima immagine che ho prima di ritirarmi in albergo è quella di un palazzo abbandonato da una finestra del quale occhieggia un manichino vestito di rosa. Urlo ed è subito Marina di Zafón…


 #seeyouinlisbon #domanièunaltrogiorno #domanièunaltroconcerto
LYA

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