Logroño - 6 maggio

“To the infinity... and beyond!”
[Buzz Lightyear, Toy Story]

(Ovvero di quando ti spari allegramente 10 ore di autobus per andare a parare in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Ma ben ricordato dai prosciuttari!)


Logroño, in italiano Logrogno, è un comune spagnolo di 151 344 abitanti, capoluogo della comunità autonoma di La Rioja, la seconda più piccola delle 17 regioni spagnole. La città, bagnata dal fiume Ebro, ospita quasi la metà della popolazione dell'intera regione. Situata nel nord della Spagna, è stata storicamente un luogo di passaggio e di frontiera. La via più famosa, il Cammino di Santiago di Compostela, porta alla scoperta di Logroño i pellegrini di paesi lontani, entrando in città dal ponte sul fiume Ebro. È la capitale gastronomica spagnola dal 2012.”

Questo è quello che Wikipedia dice sulla ridente cittadina che ospiterà l’ultima tappa del mio personale tour ispanico-portoghese. Quello che nessuno ti dice, è che Logroño è sperduta in uno spazio temporale parallelo in cui c’è solo il nulla spinto. Che c’è un aeroporto non funzionante se non nei mercoledì dispari degli anni bisestili e solo nei mesi il cui nome comincia per Q. Che non ci passa nemmeno un treno a vapore trainato da volpi in pensione. E soprattutto, che se venite da Granada, avete una sola possibilità (escludendo naturalmente carri bestiame e dorsi di mulo): un comodo viaggio in autobus di 10 ore.

Presagi nefasti cominciano a manifestarsi quasi subito: il blog non si aggiorna e continua a caricarmi imperterrito il countdown di Aaruhs. L’immagine ha un grande 6 e domani è il 6. Saranno solo coincidenze, ne sono certa. E il concerto ci sarà. Me lo ripeto come un mantra ma chissà perché, con l’ottimismo che mi è proprio, comincio a non crederci più tanto.
E mentre scopriamo che i sedili sono talmente stretti che persino un cantante lillipuziano non riuscirebbe a trovare una posizione comoda e che il Wi-Fi, nonostante un’eccellente partenza ci abbandona dopo soli 30 minuti (sapete cosa vuol avere davanti 9,30 ore di viaggio incastrati come pezzi di Tetris senza Internet? Se l’inferno esiste, deve essere così!), arranchiamo faticosamente verso la meta agognata.
Con noi viaggiano 150 nuovi amici: i pañuelos. Alcuni di loro ci lasceranno, facendo una fine onorevole, ma spero che molti arriveranno con noi fino a Logroño. Sì, perché se il mio cantante ha il mal di gola, qui la situazione non è tanto più rosea. Raffreddore, starnuti, tosse, mal di gola: ma del resto avendo affrontato un’escursione termica di 20 gradi in due giorni, dopo aver preso 72 ore di pioggia battente, dopo aver combattuto con germi grossi come triceratopi, mi sorprendo di non essere in un letto di ospedale. Quello di metallo nelle celle frigorifere però…



Dopo esserci lasciati alle spalle Madrid, il viaggio si complica. Ci stiamo arrampicando sulle montagne percorrendo delle strade talmente strette che se incrociamo un ciclista è la fine. Il paesaggio sarà anche bellissimo ma, a me che soffro di acrofobia e vertigini, sembra molto simile a un girone dantesco. Non so esattamente quanti chilometri percorriamo in queste condizioni ma so che non potrebbe andare peggio.


E invece sì.
Comincia a piovere. Ma non una pioggerellina primaverile rinfrescante, no! Secchiate d’acqua gettate con una tale frequenza e violenza, che persino Noè non avrebbe saputo bene a che santo votarsi.
Arrivare a quest’ultima tappa si sta rivelando un remake di Highlander: ne resterà soltanto uno. In questo caso, due.
A Logroño fa freddo e c’è un’umidità che farebbe increspare anche la chioma di Yuko Yamashita. Figuriamoci la mia: un cespuglio che non vede un giardiniere da decenni, praticamente. In più, mentre cammino, una tizia mi si avvicina e mi dice di tenermi stretto il cellulare che ci sono un sacco di ladri in giro. To’ che bella notizia, adesso sì che sono tranquilla!
Ripongo tutte le mie speranze nel cibo: mica siamo in una capitale gastronomica?
E, finalmente, le cose cominciano a girare nel verso giusto. Tanto per cambiare, croquetas e già questo mi rimette in pace con il mondo. Le seppie sono ambrosia pura e quando arriva il polpo lo osservo con lo sguardo innamorato che di solito riservo al mio cantate.
Dopo 10 giorni a pane e jamon (buono eh, ma mi sto trasformando in un prosciutto pure io, come in un film di Tim Burton…), sto avendo una sensazione pornogastrica. E poi, diciamolo, con la fame appagata nel modo giusto, si affronta meglio anche il pensiero che il prossimo concerto sarà anche l’ultimo, per un po’…


Arrivare in coda a mezzogiorno è bellissimo: ci sono ben 2 persone. Xavier, un tizio sulla cinquantina molto molto simpatico e Nuria, la giovane fidanzata che continuo indefessamente a chiamare nutria… Vengono da Barcellona e confessano candidamente di essere stati traumatizzati dal fatto che pochi giorni fa ci fossero in coda un sacco di persone già alle 12. E così hanno deciso di tagliare la testa al toro e arrivare… alle 8. A Logroño. Alle 8. Certo che il trauma deve essere stato davvero pesante!
La prima cosa che imparo a Logroño è che se ordinate un cappuccino e vi dicono che non hanno latte, specificate che no, non volete del latte in polvere. Volete del latte, di mucca, capra, soya, riso (insomma, quel che vi pare) ma allo stato liquido. Che poi, come sia possibile fare un cappuccino con del latte in polvere è davvero una cosa che rifugge leggi della chimica, della fisica e, soprattutto, dell’italianità.
La seconda cosa che imparo a Logroño è che se pesi meno di 55 chili e la giornata è ventosa, meglio mettersi dei sassi in tasca per evitare di finire dritti dritti a Bilbao. In compenso tra il sole e l’ombra c’è un’escursione termica di circa 22 gradi: una ginnastica continua per mettere e togliere in giubbino ogni tre passi.
La terza cosa che imparo a Logroño è che ai logroniani non gliene può fregare di meno dei Placebo, tanto che alle 18,30 siamo in meno di 30. Ma avrei dovuto capirlo già dall’articolo pubblicato sul quotidiano locale secondo cui i Placebo sono in 3 (!!!), Brian ha ancora i capelli lunghi (magari…) e Matt assomiglia in maniera preoccupante a Steve Forrest.


Arriviamo in transenna passeggiando con una tale flemma che potremmo a buona ragione essere gli ospiti d’onore della prossima edizione del Festival della Lentezza. La morte provocata dal celebre cucchiaio assassino, sopraggiungerebbe più lesta di noi.  Ci sistemiamo comodamente in transenna addirittura cercando il posto migliore per ciascuno. “Preferisci un po’ più centrale?” “No guarda, io mi sposto un po’ più a sinistra” “Ma prego, accomodati pure, c’è spazio” “Pizza per tutti?” A cinque minuti dall’inizio in parterre ci sono 3 file, pure larghe… Le tribune hanno un numero di spettatori paragonabile a quello che c’era in una conferenza interessantissima che ho seguito poco tempo fa Il giornalismo ambientale: il rapporto tra chimica e agricoltura sostenibile: 4!

E mentre assistiamo, con immenso rammarico, all’ultima performance dei Digital 21, in Italia succede l’impensabile. L’imprevedibile. Quello che ti fa dire: ma cosa ci faccio qui? FEDEZ CHIEDE LA MANO DELLA FERRAGNI. IN DIRETTA. DALL’ARENA DI VERONA. E io sono qui a vedere per la settima volta quel tarantolato di Miguel che mi spacca i timpani e mi secca le retine. Ho ufficialmente perso la cosa più trash degli ultimi due anni. So che poi mi passerà tutto, e sarò super felice di essere qui a Logroño, ma per ora mi accartoccio sul mio dolore immenso.
E poi entrano loro. Finalmente posso ricominciare a respirare normalmente. Perché, lo ammetto, non è che fossi proprio certa al mille per mille che questo concerto ci sarebbe stato. E invece, guardala lì quella primuletta di stagione. Sgambetta per il palco e strilla in quel microfono come se fosse reduce da una seduta di 48 ore alla SPA. Io al confronto ho ancora il naso che mi cola, la voce di Bud Spencer con la raucedine e una leggera emicrania che mi perfora insistentemente le tempie. Insomma, una primula colorata e una gramigna un po’ avvizzita: non plettri, non bacini, non occhiatine. Molko voglio i tuoi antibiotici, per Dio!



Piccole considerazioni random:
SCIZZZZZ è la nuova parola sexy di Loud Like Love, anche se parte una sputata che il povero Xavier che è proprio lì davanti secondo me maledice di non avere un ombrello (e credo che non mi chiederà più perché preferisco stare un po’ più a sinistra!). Dopo aver incitato tutte le città spagnole e portoghesi con un discreto entusiasmo con un CMONNN personalizzato (credo che tutti si ricorderanno il CMON BARÇA per più di un motivo) qui proprio non ce la fa. Ma del resto CMON LOGRONO farebbe arrotolare la lingua anche a Pascal, il camaleonte di Rapunzel! 

Su TOO MANY FRIENDS assistiamo a una variazione di toni molto interessante; probabilmente è solo il mal di gola ma lo SCIAMPSELISEI non strillato fa molto paesaggio bucolico con rotolata nel fieno annessa.

SPACE MONKEY (in versione stasera particolarmente lunga) rientra ufficialmente in scaletta e si riappropria prepotentemente  del suo trono recentemente conquistato come interpretazione ad acceleramento di menopausa provocato da una pioggia ormonale eccessiva: quel DAUUUUUNNNNNN alla fine è tirato talmente lungo che le gambe mi si trasformano in pastafrolla molliccia. Il bombardamento continua con EXIT WOUNDS: benché io non apprezzi particolarmente questa versione molto teatrale, devo dire che stasera ha un suo interessante perché. E io lo so cos’è: è che ho già la nostalgia! E MAI TAIAM (unitamente al tempo che ti prende anche se corri FESTER) entra ufficialmente nel dizionario Molkse/resto del mondo.

E poi il colpo di grazia: la migliore 36 DEGREES mai sentita. Giuro. I numeri scanditi lentissimamente, quel 1 4 così roco da incantonamento istantaneo, tutto così sussurrato che anche il pubblico è ammutolito. Certo, non c’è più la partecipazione degli astanti che si sgolano su “Shoulders, toes and knees” ma, come dire?, fottesega! E poi il colpo di grazia, quel DIRTY SEX ansimato che ti spezza il fiato, che ti fa venire anche un po’ il magone e che ti resta lì, incastrato sotto lo sterno, come un’indigestione di aragosta. Difficile sopravvivere e uscirne indenni.

Finalmente la pausa: mi sembra di aver fatto la traversata dell’Atlantico a rana. Invece il mio cantante pare essere particolarmente allegro e ridacchia per inspiegabili motivi (che scoprirò purtroppo a mie spese).

Schivando in maniera piuttosto rocambolesca un tonfo sul palco causato da arrotolamento di filo intorno alle caviglie e colpi di tosse che danno un tocco rap a FOR WHAT IT’S WORTH, arriviamo a SPECIAL K. Parliamo di una canzone del 2001 che raramente è stata esclusa dai live. Parliamo di una canzone che Molko dovrebbe cantare senza nemmeno usare un neurone e suonare con le manine legate. Per quanto la scena possa essere interessante, la verità è che stasera Special K comincia così: On this coronary thief, sguardo perplesso al pubblico (eh ma tesoro santo, se non lo sai tu quel che scrivi, io come posso aiutarti?), parapappapararà, ciancicata, just a leitmotif… Forse sono i prodromi di una nuova versione, chi può dirlo?

Poi, come sempre in un attimo è finita. E a pochi minuti prima delle ultime note di RUNNING, la follia dilaga alla stessa velocità di un’epidemia di sifilide in una prigione della bassa bergamasca. Una tizia, planata da non si sa dove, comincia a urlarmi fortissimissimissimo nello orecchie: BRIAAAAAAAANNNNN, BRIAAAAAAANNNN, BRIAAAAAAANNNNNN. Oh, ma mica mi pagano per perdere vista e udito in una sera sola! Via, veloci come dei petauri davanti a delle zollette di zucchero, guadagniamo l’uscita!

(Piccola parentesi di riflessione. Dopo la campagna LAVATEVI, LA PUZZA NON è ROCK, mi sento di sponsorizzare anche lo slogan: NON BEVETE, IL VOMITO NON è ROCK! Soprattutto non bevete tipo un litro e mezzo di Tevernello Rosso e limone. Non lo reggerebbe nemmeno un camionista croato. E la puzza fa davvero schifo, soprattutto se mi vomiti a mezzo centimetro, che poi ci tocca pure chiedere l’acqua per pulire. Soprattutto non vomitare davanti al tuo cantante che se prima ti guarda ridendo davanti a un’espressione non proprio sveglia, poi ti fa un lancio di sopracciglia disgustate da competizione olimpica. Per pietà, non bevete. Cioè fatelo dopo se proprio non potete resistere. Ma non vomitate sui fan, non è per niente carino.)

Aspettiamo un po’ fuori anche perché fa piuttosto caldo (strano!) osservando una tizia della security che cerca di incerottare i tour bus e intransennare noi con il medesimo nastro bianco e rosso… Chilometri e chilometri di nastro per poi scoprire che la transenna fa acqua da tutte le parti e Brian avrebbe dovuto fare un salto alla Olio Cuore per entrare nel bus: misteri della logistica. In tutto questo casino sperare che si fermi e credere alle parole di Giacobbo hanno la stessa valenza. E, infatti, esce, fa un sorriso e un cenno di saluto e sparisce. Io sono completamente cotta ma realizzo una cosa: aveva addosso una giacca verde militare e soprattutto un paio di jeans blu scuro di taglio maschile non aderenti che gli fanno pure le gambe lunghe. Allora quest’uomo ha dei vestiti! Allora se vuole riesce a non sembrare né un profugo né un controllore. Allora c’è speranza che prima o poi i pantaculandra finiscano nel bidone del rusco!
Del resto, hope is important. E con questa nuova fiducia nel futuro, il mio tour spagnolo termina. Torno a casa stanca, malaticcia, ingrassata, chiedendomi dopo Aarhus, Zottegem e Logrono quali altri amene località ha intenzione di propinarmi la mia band.

Ma, come sempre, torno a casa satura di emozioni che ci metteranno un bel po’ a sparire.
Infatti, questo post esce a un mese di distanza da quel 6 di maggio. In queste settimane sono successe tantissime cose, tutte brutte purtroppo. Tutte cose che cercano di trasformare quello che per molti è il più bello dei sogni, in un incubo. È successo Manchester, Londra, Torino… anche l’Australia. E, per la prima volta, ho davvero paura e tutto l’entusiasmo che avevo per Taormina si sta sgonfiando come un palloncino.
Poi però succede davvero l’incredibile. Succede che la mia band annuncia il mini tour autunnale. E sale l’adrenalina, la foga del planning, l’ansia da prestazione, la frenesia nel controllare le venue, il pianificare tutto nel minimo dettaglio ancora prima di avere un biglietto fra le mani: insomma succede la felicità! E questo vince su qualsiasi odio e qualsiasi paura.

Solo un piccolo appunto: va bene che chi è stato a Logrono può fare qualsiasi cosa, ma Wolverhampton? Seriamente?

#SeeyouinTaormina
#itwillbemagic
#ontheroadagain


Commenti

Post più popolari